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Israele - Palestina: il processo di pace mai esistito

 

Il lungo inganno

e la menzogna della “generosa offerta”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luciano Neri

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‘‘I palestinesi saranno giudicati per le loro azioni, non per quello che di­cono". Così Sharon, il criminale responsabile del massacro dei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, commentava l’ennesimo inutile e appena concluso vertice di Sharm al-Sheikh dell’8 febbraio 2005. “De te fabula narratur”, avrebbe risposto il poeta Orazio. Gli israeliani che chiedevano ai palestinesi quello che esattamente avrebbero dovuto assicurare loro, la coerenza tra i fatti e le enunciazioni. E che non hanno mai assicurato. Anche quello di Sharm, come i precedenti e come i successivi, era un vertice già fallito in partenza, prevedendo l’assegnazione del 60% della Cisgiordania direttamente ad Israele, il controllo e presenza militare di Israele su un altro 19%, e solo il restante 21%, “amministrativamente” governato, ai palestinesi. Sharon rilasciava queste dichiarazioni nello stesso momento in cui Israele espropriava terra e cacciava centinaia di famiglie a sud di Hebron per far posto alla costruzione del muro. È tempo di riconoscere con realismo e onestà intellettuale che tutti gli incontri del cosiddetto “processo di pace” (absit iniuria verbis), dal vertice di Madrid a Oslo, da Sharm al- Shaikh alla Road Map, dalla menzogna sulla “generosa offerta” di Ehud Barak al “miracoloso”, e mai esistito, Piano Olmert, sono stati un tragico inganno. Sono falliti perché Stati Uniti e Israele perseguivano nelle premesse e nelle conclusioni un obbiettivo antitetico e inconciliabile con quello dei palestinesi. Sulla base del principio “due popoli, due Stati” e del mutuo riconoscimento, l’obbiettivo dei palestinesi era quello di avere un proprio Stato indipendente e autogestito, fondato sul controllo di un territorio omogeneo, dello spazio aereo e dei confini del 1967 come definiti dalle risoluzioni dell’Onu, sullo smantellamento delle colonie e degli insediamenti militari, sul ritorno dei profughi, sul riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dei due Stati.  Israele e Stati Uniti negoziavano, al contrario, per rendere permanente l’occupazione della Cisgiordania e impedire la nascita dello Stato di Palestina. Sempre le dichiarazioni entusiaste sui vari “processi di pace” sono state accompagnate da una realtà sul campo che si muoveva, e si muove, in direzione opposta. Segnata dallo strangolamento dei territori, dall'esproprio dei terreni, dall'espul­sione dei proprietari palestinesi, dagli assassinii, dalle torture, dalla carcerazione amministrativa (senza prove e senza processo) persino di migliaia di bambini e di minorenni, dalla crescita esponenziale delle colonie e degli insediamenti militari, dal consolidamento di uno sistema di apartheid che reprime e discrimina tutti i palestinesi su base etnica. Fuori e dentro i territori occupati.  

Quello di Sharm è stato uno dei vertici più paradigmatici, da una parte di come i palestinesi, divisi e indeboliti, hanno affrontato le trattative, e dall’altra dei reali obbiettivi perseguiti da Israele. Sharon ha preteso e ottenuto che l’agenda fosse esclusivamente incentrata sulla sicurezza di Israele, mentre le rivendicazioni di fondo dei palestinesi non sono state neppure accennate. Abu Mazen è arrivato al vertice come il cameriere diligente che aveva portato in tavola il menù ordinato dagli altri. Debolissimo nel momento in cui pensava di essere forte. Pensava di essere forte perché, specchiandosi nella compiacenza degli altri, come gli era stato chiesto da americani e israeliani, aveva portato al tavolo l'accordo raggiunto con i gruppi del fondamentalismo islamico che avevano accettato di interrompere, anche se momentaneamente, le azioni militari e gli attentati. Perché aveva attivato iniziative per ricondurre all'Autorità Palestinese l'uso esclusivo della forza. Perché aveva dislocato i poliziotti palestinesi a presidio dei confini di Gaza con l'Egitto. Perché aveva smantellato alcuni dei passaggi utilizzati per il traffico di armi e avviato le procedure per incorporare le Brigate di Al Aqsa nel­l'esercito palestinese. Una tragica illusione. L’indebolimento o la sconfitta dei gruppi islamisti non sarebbero mai dipesi da un debole Abu Mazen, né da una screditata e drasticamente indebolita Fatah. Sarebbe potuta derivare solo dai risultati concreti che la strategia del negoziato avrebbe prodotto. Ma come noto è avvenuto l’esatto contrario. Gli inevitabili fallimenti dei finti processi di pace hanno favorito la crescita dei gruppi radicali islamici. Consenso immediatamente ratificato anche dalle successive elezioni amministrative svolte a Gaza e nelle quali Hamas avrebbe stravinto, costringendo ad un ruolo per la prima volta marginale la forza politica storicamente maggioritaria, il Fatah. Hamas ha con­quistato 75 consiglieri su 118, e 7 dei 10 Comuni dove si è votato. Già nelle pre­cedenti amministrative del 23 dicembre, anche in Cisgiordania, il Fatah aveva perso 9 amministrazioni su 26 a vantaggio di Hamas. La tendenza era molto evidente: mentre Abu Mazen e Fatah colavano a picco per autorevolezza, rappresentatività e consensi, Hamas cresceva, si radicava, vinceva le elezioni e Israele otteneva il risultato che perseguiva. Far crescere Hamas, far fallire qualsiasi negoziato, perseguire come unica opzione quella militare continuando a ripetere che da parte palestinese non esiste una controparte con la quale negoziare. Ad Abù Mazen, indebolito dalla incapacità di comprendere i veri obbiettivi perseguiti con i negoziati sia da Stati Uniti che Israele, non è mai stata concessa la minima possibilità di affrontare i nodi essenziali: il ritiro di Israele da tutti i territori occupati nel 1967, lo smantel­lamento degli insediamenti coloniali e militari, il controllo dei confini e delle sorgenti, lo status di Gerusalemme, il problema dei profughi. Questi sono i nodi essenziali irrisolti che hanno impedito un accordo, non altro. Chi pensava che il processo sarebbe cambiato, che il problema era Arafat e che con la sua morte tutto sarebbe stato più facile ha commesso un errore di valutazione enorme. Il problema era e resta l'occupazione militare israeliana e la colonizzazione dei territori palestinesi. Della quale l’uscita da Gaza decisa da Sharon nel 2005 costituisce uno sviluppo coerente, non una contraddizione. Il consolidamento e l’estensione della colonizzazione, non l’inizio della sua fine. Se da una parte questa decisione ha infranto un tabù (che gli insediamenti si possono smantellare e che dai territori ci si può ritirare), va considerato che l’uscita da Gaza fu imposta soprattutto dai vertici militari, considerandola un territorio militarmente incontrollabile per l’alta densità di popolazione, privo di ri­sorse, di sorgenti acquifere e di valore strategico. Ai partiti dei coloni che denunciavano che l'uscita da Gaza avrebbe potuto rappresentare un precedente nello smantellamento degli insediamenti anche in Cisgiordania, Sharon, i suoi collaboratori, e soprattutto gli atti del governo israelia­no, hanno risposto in forma inequivoca e pubblica : l'uscita da Gaza, con la costruzione del muro e l'e­stensione degli insediamenti sia militari che civili, è finalizzata a mantenere il controllo della larga parte della Cisgiordania e ad impedire la nascita di uno Stato palestinese effettivo e pienamente sovrano all'interno dei confini della linea verde. E non a caso i 7.000 coloni usciti da Gaza sono stati ridislocati nelle colonie in Cisgiordania con il sostegno finanziario del governo. Il più stretto collaboratore di Sharon, Dob Weisglass, lo ha affermato lapidariamente in una dichiarazione ufficiale riportata da tutti i media: "... il piano di ridispiegamento è finalizzato a congelare il processo di pace per decenni, rendere permanente l’occupazione della Cisgiordania e impedire la nascita di uno Stato palestinese".In sostanza sono stati smantellati una dozzina di insedia­menti a Gaza per mantenere dove sono i 300.000 coloni della Cisgiordania. E per aumentarne esponenzialmente il numero. Israele proponeva di "concedere" la striscia di Gaza, che costituisce l'1,3% della Palestina, per mantenere il possesso permanente della Cisgiordania che è 16 volte più grande.

Una strategia, quella della esclusività militarista, che ha portato non solo al fallimento di qualsiasi proposta negoziale, ma anche alla estinzione del Partito Laburista, di origine “azkenazi” ed europea, che aveva guidato la fondazione dello Stato di Israele nel 1948. E al vicolo cieco nel quale è precipitato Israele, con una crisi economica, istituzionale e morale che lo scontro con i palestinesi fa esplodere e che non è compensabile con i miliardi di dollari che gli Stati Uniti concedono ogni anno ad uno Stato assistito. Un terzo della popo­lazione è sotto la soglia della povertà, cresce l'insicurezza esistenziale e per la prima volta nella sua storia Israele, terra di immigrazione per la diaspora ebrai­ca, conosce una crescente emigrazione di cittadini che fuggono dalla crisi e dal­la paura. Sono soprattutto giovani e fasce di emigrazione "storica" di origine europea askenazita quelli che se ne vanno.

Quelle storicamente più colte e progressiste, sostituite da una nuo­va immigrazione, falascia, africana, Russa e proveniente dai Paesi dell'ex blocco sovietico. Una modificazione antropologica e culturale della popolazione che ha contribuito ad accelerare il processo di trasformazione della natura di uno Stato retto da un gruppo dirigente “eurosocialista coloniale” ad un gruppo dirigente ebraicofascista, razzista e teocratico. Fasce di popolazione che vanno ad ingrossare la destra e le colonie nei territori occupati. Questa modificazione "antropologi­ca" della demografia israeliana, unitamente all’estinzione del Partito Laburista, ha contribuito a portare al potere la destra e al governo gli impresentabili Sharon, Ben Gvir, Smotrich. La crisi del Partito Laburista trova spiegazioni in due elementi, uno di natura soggettiva, il suo capo Shimon Peres, e uno di natura oggettiva, aver sempre perseguito, come la destra, l’obbiettivo di impedire la nascita di uno Stato palestinese vero, indipendente e autogestito sull’intero territorio di Cisgiordania e Gaza. Un partito che ha subito in poco tempo sconfitte politiche ed elettorali di proporzioni inedite, quasi cancellando la sua rappresentanza alla Knesset e il cui ruolo in questi ultimi anni è stato esclusivamente gregario nel sostegno ai governi della destra. Un partito ridotto da Shimon Peres a pura tattica, per il quale il governo (e il potere) non è più lo strumento per raggiungere il fine, ma il fine stesso. Peres ha mantenuto in vita il primo Governo Sharon, condividendone di fatto tutte le scelte finalizzate a cancellare gli stessi accordi di Oslo, considerati e definiti da Sharon "una sciagura" per Israele.

Ha mandato il suo compagno di partito Ben Elieser, Ministro della Difesa e re­sponsabile per i territori, a pianificare e dirigere una delle repressioni più violente contro i palestinesi e una delle colonizzazioni più massicce in Cisgiordania. E non a caso, per responsabilità di Peres e Ben Elieser, è in quella fase che il Partito Laburista subisce il primo dei successivi e molti tracolli elettorali.

Quando il coraggioso e popolare sindaco di Haifa, Amram Mitzna, si è candi­dato alla guida del Labour e del Paese tentando di rico­struire un progetto alternati­vo sui temi sociali e della pace, Peres ha dapprima tentato di impedirne la can­didatura e poi scaricato sul­lo stesso Mitzna la respon­sabilità di una sconfitta attribuibile a lui e so­lo a lui. Il Partito Laburista con Peres si è esclusivamente identificato con il governo, con il potere, con la colonizzazione e con l’opposizione allo Stato palestinese. Un processo che ha portato il Partito Laburista ad accettare il ricorso alla forza come unico strumento della poli­tica. L'ingresso del Labour nel primo governo Sharon, assieme al Likud ed ai partiti ultra religiosi, è solo l'ultimo sacrificio pagato dal Partito alla ambizione personali e di potere del suo capo, scelta che ha determinato altre fratture interne e abban­doni.

Di 21 deputati laburisti, tra ministri, sottosegretari, presidenti di commissione, sono stati 15 quelli che a vario titolo sono entrati nell'esecutivo. "Più che un ingresso — scrisse Haretz — è l'ennesima irruzione del Partito Laburista nel governo".

La responsabilità più grave del Partito Laburista di Peres è stata quella di aver la­sciato priva di rappresentanza politica e parlamentare, quella larga parte dell'opinione pubblica israeliana, i sondaggi di allora dicono la maggioranza, favorevole alla pace con i palestinesi, all'opzione pace in cambio dei territori e al ritiro dai confini del 1967. 
Questa oscenità politica ha prodotto anche Ehud Barak, un dirigente laburista che è stato protagonista di opportunità perse e di leggende spacciate per proposte, co­me quella della "generosa offerta” nel 2000 ad Arafat a Camp David. Una menzogna monumentale rivenduta con in­sistente determinazione, sia in Israele che a livello inter­nazionale, fino a farla diventare una mezza verità. Governanti e politici corrotti e interessati, giornalisti arruolati, analisti analfabeti hanno martellato per decenni, e ancora insistono, sulle “gravi responsabilità” di Arafat,  sul "rifiuto storico" e "sull'occasio­ne persa" a Camp David dai palestinesi. A dimostrazione di quanta ignoranza pervada ancora i termini reali dell'incontro e di quanti danni abbiano fat­to la propaganda da una parte e la cronica incapacità di comunicazione dei pale­stinesi dall'altra. Perché mai Arafat, che era un pragmatico e non certo un avventurista, avrebbe dovuto ri­nunciare ad una "generosa offerta" che restituiva, addirittura, il 95-97 per cento dei territori occupati? Chi mai in una trattativa può pensare di ottenere il 100 per cento dell'obbiettivo che si prefigge? Le cose, in tutta evidenza, erano molto di­verse.

Il rifiuto palestinese della "generosa offerta" fu semplicemente perché la "gene­rosa offerta" non c'è mai stata. Camp David fu voluto da" Clinton e Barak, en­trambi a fine mandato, non le­gittimati, né in grado, né intenzionati ad arrivare alla definizione dei nodi centrali del conflitto. Barak partecipava come primo ministro di un governo di minoranza. La fase storica inoltre era segnata dalla crescente frustrazione e rabbia dei palestinesi per la mancata attuazione degli accordi di Oslo e per la politica di espan­sione degli insediamenti nei territori, che proprio con Barak si erano moltiplicati. La “generosa offerta” non solo non è mai esistita, ma quella che fu proposta da Barak era la certificazione del totale rifiuto di un vero Stato palestinese. L'inevitabile fallimento del vertice di Camp David era nelle premesse, l'offerta di Barak si limitava a fotografare l'esistente, ai palestinesi non concedeva né il controllo dei confini, né dello spazio aereo, né delle sorgenti d'acqua. Gli inse­diamenti, compresi quelli militari, diventavano permanenti. Gerusalemme rima­neva "non negoziabile" in quanto "capitale sacra, eterna e indivisibile" di Israele. Un piccolo territorio, il 22 per cento di una terra grande poco più della Sardegna, secondo la "generosa offerta" di Barak, avrebbe dovuto essere larga­mente occupata (come già lo è) da corridoi e strade, insediamenti industriali, ci­vili e militari controllati da Israele, che avrebbero diviso (come dividono oggi) tra lo­ro le città ed i territori palestinesi, lasciando a questi solo l'esercizio amministra­tivo di una limitata sovranità comunale. Tanti bantustan, isolati tra loro, realizzati su base etnica, senza un'e­conomia propria, dipendenti in tutto e per tutto da Israele. Niente in sostanza che avesse la minima parvenza di uno Stato. Questa nei fatti era la "generosa of­ferta" di Barak. Offerta che né Arafat allora, né Abu Mazen oggi, né nessun altro esponente palestinese avrebbe potuto, né potrebbe accettare. L'intera proposta era semplicemente surreale, come ha ben dimostrato la docente attivista Tanya Reinhart con un suo intervento su 'Yediot Ahranot", il più diffuso quotidiano israeliano. In un articolo titolato "la truffa di Camp David", Reinhart scrive che “non è vero che ai palestinesi è stato offerto il 50% della Cisgiordania, peraltro in 7 cantoni separati tra loro; e che ad Israele è stato assegnato il 10% più il restante 40% che sarebbe rimasto "sotto il controllo" di Israele. Se ti annetti direttamente il dieci per cento – scrive Reinhart – se non accetti di smantellare gli insedia­menti, se continui a rifiutare di tornare alle frontiere del 1967 e di restituire Gerusalemme est, se deci­di di tenerti contem­poraneamente intere aree come la valle del Giordano e di accerchiare completamente i territori palestinesi in modo che non possano confinare con nessun altro Stato che non sia Israele, oltre a conservare le cosiddette "strade di raccordo" e le aree adiacenti, il territorio assegnato ai palestinesi si riduce ben al di sotto del 40%, gran parte del quale da discutere chissà quando in un lontano futuro”.

Ai pertinenti rilievi di Reinhart si aggiunga che neppure i pur limitati trasferimenti concor­dati negli incontri di Wye River nel 1998 e di Sharm al-Sheikh nel 1999 sono stati mai attuati da Israele. E Barak negli incontri di Camp David ha sempre rifiutato di discutere qualsiasi opzioni su mappa. Fin dall’inizio era evidente che per gli israeliani il processo di pace era una finzione. Non a caso Barak, di lì a pochi mesi, immediatamente dopo la sua sconfitta elettorale, ritirò tutte le pur vaghe proposte formulate negli incontri precedenti. Cominciava l’era Sharon. Questo ricercato e deliberato fallimento delle trattative da parte israeliana, era il segnale che aspettavano e speravano i gruppi del fondamentalismo islamico palestinese ed i settori del fondamentalismo politico e militare israeliano, simmetricamente contrari al processo di pace ed a qualsiasi soluzione negoziale. È da quell’ennesimo fallimento che ebbe origine lo scoppio e la militarizzazione della seconda intifada.

 

Un’altra menzogna (con elementi persino farseschi dentro la tragedia) che si sente spesso ripetere dallo scemenzario politico giornalistico o dalla propaganda delinquenziale è quella della “proposta Olmert”. Un’altra “generosa offerta” israeliana rifiutata da questi ottusi e autolesionisti palestinesi la cui unica ambizione esistenziale è quella di essere bombardati, ammazzati, torturati, imprigionati e cacciati. Ehud Olmert era un corrotto senza alcuna autorevolezza politica e morale, senza alcun consenso elettorale o parlamentare che gli consentisse di avanzare alcunché. Men che meno un piano di pace. Già indagato per corruzione quando era sindaco di Gerusalemme, a maggio del 2014 fu condannato a sei anni da un tribunale di Tel Aviv per corruzione aggravata. Memorabili e durissime le parole indirizzate a Olmert dal giudice David Rozen prima della lettura della sentenza; “un funzionario pubblico che accetta tangenti equivale a un traditore”. Per problemi di prassi giudiziaria (la morte di un testimone ritenuto fondamentale dalla difesa) con sentenza definitiva la condanna fu ridotta a 19 mesi e Olmert arrestato. Primo e unico capo di governo di Israele ad essere arrestato per corruzione. Esponente dell’estrema destra del Likud, lascia il partito nel 2006 per aderire ad un altro partito della destra, Kadima, fondato da Ariel Sharon e al quale avevano aderito anche il “liar” (il mentitore) Shimon Peres e Tzipi Livni. La sua fortuna politica arriva quando, nel 2005, Sharon viene messo fuori gioco da un devastante ictus. Olmert viene candidato da Khadima e ad aprile del 2006 assume la carica di primo ministro, sostenuto da un governo composto, oltre che da Khadima e dai laburisti, dai partiti fascisti dell’estrema destra religiosa, Shas e Israel Beitenu. Quest’ultimo fondato e diretto da Avidgor Lieberman, un moldavo razzista di Chisinau che persegue l’espulsione dei palestinesi non solo da Israele ma da tutta la Palestina storica. Che considera nemici da controllare e da reprimere anche i settori laico liberali “binchi” e persino gli ebrei originari dei Paesi arabi. Partiti che saranno poi colonne portanti dei governi Netanyahu. Olmert non aveva alcuna maggioranza, né nel governo né alla Knesset, per avanzare alcuna proposta di pace e di negoziato vero, per un vero Stato palestinese. Per dimostrare di essere il “duro” erede del suo intransigente capo Sharon, dopo soli due mesi dal suo insediamento, il 12 luglio del 2006, scatena la guerra contro Hezbollah e il Libano. La cosiddetta “guerra dei 33 giorni”, o “seconda guerra del Libano”. E la perde. Hezbollah mette fuori uso decine di tank israeliani con nuove armi anticarro, affonda navi da guerra e da ricognizione, abbatte elicotteri, respinge la fanteria. Larga eco viene data sia dai media israeliani che libanesi ad una operazione militare israeliana che diventa un siprietto comico, quando un gruppo operativo dell’esercito di Tel Aviv viene mandato a Baalbek, valle della Bekaa libanese, per arrestare un civile che porta lo stesso nome del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Riconosciuto l’errore, il civile viene rilasciato. Una umiliazione. E così Olmert, appena 33 giorni dopo l’inizio, il 14 agosto 2006, dichiara conclusa la guerra, e si ritira. 
A questa sconfitta se ne aggiunge un’altra altrettanto devastante: i risultati dell’indagine della Commissione Winograd (Commissione parlamentare presieduta dall’ex giudice Eliyahu Winograd) sulla guerra dei 33 giorni e sul comportamento dei vertici politici e militari. Il 30 aprile 2007 la commissione pubblica un rapporto schiacciante che condanna, per “i gravi errori commessi”, il primo ministro Olmert, il ministro delle Difesa Amir Peretz e il capo dell’esercito Dan Halutz. Nel 2008, a seguito del Rapporto della Commissione Winograd e delle indagini della magistratura, è la sua stessa compagna di partito e Ministro degli Esteri, Tzipi Livni, a chiedere le sue dimissioni. Dimissioni che Olmert annuncia in una conferenza stampa ma che poi non darà, per scatenare invece l’operazione “Piombo Fuso” contro Gaza. Sia per far dimenticare i propri processi, sia in previsione delle imminenti elezioni nazionali che si sarebbero tenute il 10 febbraio del 2009. Facendo sempre pagare il conto naturalmente ai civili palestinesi e israeliani, e colpendo sul nascere qualsiasi tentativo negoziale. Il partito Kadima sarà servito per assicurare ad Olmert il governo ed a Peres la presidenza della Repubblica, ma non certo per incidere sulla politica israeliana e israelo - palestinese più in generale. Tre anni dopo si estinguerà, crollando al 2,05% dei consensi. Ultimo tra i partiti in competizione. Questo era nella realtà Olmert, non un lungimirante politico che ha creduto nella pace e presentato un piano credibile, ma un esponente politico della destra israeliana, corrotto e militarista, che non ha mai creduto né avanzato alcun vero progetto per la pace tra israeliani e palestinesi. Il vertice di Annapolis del 27 novembre 2007, voluto da Bush con la partecipazione di Abu Mazen, Olmert e numerosi altri governi, è stato uno dei capitoli più inutili e vergognosi del lungo inganno che ha caratterizzato il finto processo di pace israelo - pelestinese fin dall’inizio.  Pace che né Olmert, né Ehud Barak, né Shimon Peres, né gli Stati Uniti, né Israele hanno mai perseguito. Fin dalle prime battute Olmert ha preteso che il documento di convocazione fosse definito come semplice “documento di intenti”, senza prevedere alcuna risoluzione vincolante e rifiutando la richiesta di Abu Mazen di prevedere una data per il raggiungimento di un trattato. La intransigenza israeliana è emersa fin dall’inizio con la indisponibilità a trattare sui punti fondamentali per la controparte palestinese: autogoverno del territorio, controllo dei confini, Gerusalemme, smantellamento delle colonie e degli insediamenti militari, rientro dei profughi. Olmert ha formalizzato questa intransigenza, presentando come riferimento preliminare del vertice la “lettera di garanzie” stilata e consegnata da Bush a Sharon nell’aprile del 2004, nella quale si riconosceva valido il principio dell’annessione al territorio israeliano delle colonie ebraiche in Cisgiordania, tenendo conto “della realtà sul terreno e delle novità demografiche e residenziali”. Testuale. Rifiutandosi di presentare mappe delle possibili proposte e mantenendo le stesse posizioni sostenute da Israele in tutti i vertici precedenti: le colonie in Cisgiordania gli insediamenti militari restano dove sono; no al controllo palestinese su Gerusalemme est e sulla spianata delle moschee; no al ritorno dei profughi; no al controllo dei confini, dell’acqua e dello spazio aereo. Una proposta Olmert, esattamente come per Barak, semplicemente non è mai esistita. Una proposta negoziale Olmert non solo non l’ha mai voluta, ma neppure avrebbe mai potuto presentarla. Era già uscito dal governo il ministro ebraico fascista Avidgor Lieberman con gli 11 parlamentari del suo partito di estrema destra Yisrael Beitenu, portando la risicata maggioranza del governo Olmert a 65 parlamentari (su un totale di 120). Il partito ultraortodosso di estrema destra “Shas” minacciava a sua volta di uscire dal governo se fossero andati avanti i negoziati con i palestinesi, portandosi dietro i suoi 12 parlamentari. Persino due ministri del suo partito Kadima, Shaul Mofaz e Avi Dichter, minacciavano che avrebbero lasciato il governo in caso di accordo con i palestinesi. Se considerate che persino i laburisti con Ehud Barak avevano criticato gli incontri in corso, si comprende quanto quella di Olmert e di Bush fosse non una proposta ma una vergognosa trappola, per far finta di essere disponibili al negoziato, per gettare nuovo fumo negli occhi, per lasciare il cerino delle responsabilità nelle mani dei palestinesi, per eterizzare le colonie e gli insediamenti militari in Cisgiordania e per impedire la nascita di uno Stato palestinese. I colloqui erano ad un livello di evanescenza e di mistificazione tale che persino un presidente “disponibile” oltre misura come Abu Mazen alla fine decise di interrompere questa farsa.

 

Oggi, specialmente dopo il genocidio in corso a Gaza, dobbiamo riconoscere che il finto processo di pace che va dalla Conferenza di Madrid (1991) al vertice di Annapolis (2007), passando per Oslo (1993) e Camp David (2000), non solo non ha portato la pace ma ha prodotto danni devastanti. Ha allontanato una soluzione negoziata, ha fatto crescere il sistema di apartheid in Israele, ha esteso la colonizzazione, ha rafforzato le componenti più violente e antidemocratiche dei due campi nella versione strutturalmente criminale, teocratica e patriarcale. Ebraico fascista e islamofascista. Tutte le condizioni, della politica, delle istituzioni e delle persone, dopo Oslo sono peggiorate. E se oggi, nonostante la tragedia si sia allargata e disumanizzata all’inverosimile, abbiamo ancora più bisogno di riprendere un cammino di dialogo finalizzato alla pace. Nessuno è in grado di sapere cosa succederà dopo il genocidio in corso a Gaza. Ma alcune cose le sappiamo. Innanzitutto che niente sarà come prima. Che né i palestinesi né gli israeliani potranno cancellare l’altro sul piano militare. Che una coesistenza decorosa è meglio di una guerra permanente. Per quanto alla luce delle tragicità del presente qualsiasi proposta di dialogo e di reciproca comprensione oggi possa apparire assurda quanto inverosimile, è su questa che dobbiamo investire tutte le nostre energie. Gli accordi, compresa la istituzione dell’Onu, sono sempre arrivati dopo le tragedie. Noi, i movimenti, i cittadini, siamo chiamati a fare quello che i nostri governi non fanno. Diventando intellettuali militanti, sviluppando pensiero e azione collettiva. Per quanto utopico possa apparire, è l’unica cosa possibile. Dobbiamo riprendere le parole di un grande intellettuale palestinese, Edward Said, umanista laico che invitava al coraggio della critica, alla rottura di complicità con forme di pensiero belliciste e mortifere, alla mobilitazione dell’intelligenza e dell’immaginazione, a inventare parole nuove ed a dare corpo a pensieri nuovi.